di Domenico Beccaria
Sono passati quarantaquattro anni da allora, il buio si è richiuso su di noi e sono solo i soliti quattro lampi nell’oscurità a squarciare le tenebre della delusione che ormai regna sempre più profonda nella nostra anima
Sabato 16 maggio abbiamo celebrato l’anniversario del nostro primo ed ultimo scudetto del dopo Superga. Era il 1976, ventisette anni dopo la tragedia, e da allora ne sono passati altri quarantaquattro, in fila per sei col resto di due, sempre più nutrito drappello di sentinelle della memoria e del tempo che è trascorso da quel glorioso giorno.
Ricordo perfettamente, che mio nonno Domenico, il primo di una lunga dinastia di Beccaria granata, ormai vecchio e malfermo sulle gambe, non se l’era sentita di venire al Comunale, ma aveva delegato ai suoi tre figli, mio padre, Luigi, ed i suoi due fratelli più giovani, Mario e Giovanni, di rappresentarlo, ovviamente con me. La mattina della domenica, dopo una notte agitata ed insonne, credo di aver iniziato a rompere le scatole a mia madre per far pranzo, dopo il quale saremmo partiti alla volta dello stadio, già verso le dieci e mezza del mattino. E quando finalmente apparecchiò, in quattro bocconi ero già alla frutta e spasimavo per uscire da casa, con la mia bandiera, rigorosamente cucita da mia madre, su cui avevo speranzosamente ed orgogliosamente già appuntato lo scudetto numero sette, primo certamente, di una serie di successi che non potevano non arriderci, tanto forti sembravano ai miei occhi di quattordicenne, quei ragazzi granata a giganteggiare sul verde del prato. “Radice ed undici Grandi contro tutti”, riportava uno striscione appeso in alto sulla Maratona, a ricordare che fino a quel giorno, da quello stadio, nessuno aveva portato via nemmeno un punto, contro quello squadrone.
Arrivati finalmente allo stadio, dopo un cammino che mi parve interminabile, mentre contava gli stessi passi che avevo fatto tutte le domeniche precedenti, quando avevo assistito alle altre partite, il catino gremito di folla presentava uno spettacolo da mozzare il fiato. Non un posto vuoto, non un centimetro quadrato che non fosse colorato di granata, ad incendiare nel cocente sole del primo pomeriggio di un maggio particolarmente caldo, la Fede e la passione di ognuno dei presenti.
La cronaca della partita la conosciamo tutti a memoria: il cross a mezz’altezza di Ciccio Graziani per il suo gemello, e Paolo Pulici, il Ciclone, che senza esitazione si butta a sfidare con la sua testa i tacchetti del difensore e a spedire al palla a gonfiare la rete, sospinta dall’anelito di settantamila cuori presenti e palpitanti all’unisono. Poi lo sfortunato autogoal di Mozzini, gli inutili tentativi di ritornare in vantaggio e l’attesa spasmodica che le radioline sintonizzare su “tutto il calcio minuto per minuto”, da Perugia, portassero la notizia che tutti aspettavamo. La Juventus aveva perso la partita contro i grifoni perugini di Agroppi e Curi, che quel giorno aveva segnato il goal decisivo, e aveva lasciato strada libera al nostro trionfo.
Diventa difficile razionalizzare tutto quello che è successo dopo, perché non si trattava semplicemente di una vittoria in una competizione sportiva, era una città, un popolo intero, che quel giorno rivedeva la luce dopo ventisette anni di buio, interrotto solo da qualche fugace lampo nell’oscurità. Era la gente del Toro, che aveva messo alle sue spalle un dolore immenso e lo aveva superato, metabolizzato, sotto un certo punto di vista.
Quel giorno, anche molti bianconeri, ricchi di una sportività di cui io, lo confesso, non sarei mai capace nei loro confronti, si unirono anonimamente alla nostra gioia, che esplodeva incontenibile dopo decenni ad essere compressa, trattenuta, negata e sfilarono per le vie della città a condividere non una vittoria sportiva, ma una rivincita contro un destino atroce, un atto di giustizia ottenuta dopo troppo tempo ad attendere.
Sono passati quarantaquattro anni da allora, il buio si è richiuso su di noi e sono solo i soliti quattro lampi nell’oscurità a squarciare le tenebre della delusione che ormai regna sempre più profonda nella nostra anima. Molti di quelli che quel giorno festeggiarono, non ci sono più, ma quelli che ci sono ancora hanno scolpito nella mente ed impresso nel cuore il ricordo di quel giorno di gloria, in cui sembrava non esserci altro, sotto il cielo di Torino, che la nostra effimera felicità.
E poi ci sono quelli che, alla domanda: “si ricorda cosa ha fatto il 16 maggio 1976?” rispondono distrattamente: “boh, è passato tanto tempo, non ricordo. È importante?”.
Ma quella è un’altra storia, che col Toro non c’entra niente.
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